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Avevamo promesso vari articoli a tema #PlasticSì per il mese scorso, ma per farli bene la redazione ci ha preso più tempo del previsto. Oggi finalmente Alessandro, il nostro esperto di materiali, ci racconta la storia della plastica. Cedo a lui la parola in questo articolo per capire meglio come è nato e chi è questo materiale così controverso.

Loredana Esposito – Founder

Com’è nata la plastica?

Per capire veramente cosa siano le materie plastiche, non dobbiamo andare a solo qualche decennio fa, ma dobbiamo partire dal 1600 a.C.
I nostri cari amici precolombiani già utilizzavamo materie plastiche per giocare ad uno sport antico, l’ōllamaliztli, detto anche tlachtli; in ogni modo, difficilmente pronunciabile. Prendevano delle palle di 20-30 cm di diametro, se le lanciavano sui fianchi e cercavano di farle passare attraverso un cerchio posto in alto su una parete. Scomodo, ma sì che si divertivano.

Non sapevano però che quei palloni, chiamati ōllamaloni, fossero fatti di ciò che noi chiamiamo oggi lattice, una delle tante declinazioni di quella che oggi chiamiamo “plastica” e che adesso sappiamo produrre in modo semplice e veloce, utilizzandolo per una miriade di applicazioni, industriali e non.

Monomeri e polimeri: le basi della plastica

Nel lattice troviamo “pezzetti” di plastica, dette microparticelle polimeriche, formati in modo naturale. Come abbiamo spiegato nel precedente articolo, un polimero è una molecola molto lunga, formata da tante unità chiamate monomeri. Noi ne siamo pieni: il nostro stesso DNA è un polimero e si, se lo srotolate è davvero lungo più dell’equatore (tutto il DNA di tutte le vostre cellule si intende). Insomma, davvero lungo!

Senza entrare troppo nel dettaglio, facciamo finta che un monomero sia il vagone di un treno, e il nostro bel regionale (con tot minuti di ritardo, come al solito) sia un polimero formato da tanti vagoni simili messi assieme. Se poi facciamo uno sforzo di immaginazione ulteriore, possiamo immaginare a quelle file di treni come a dei fili di stoffa che vanno a creare, legandosi tra loro, la trama della nostra materia plastica.

La plastica e i suoi papà

Ma come abbiamo imparato a crearla da noi questa plastica? E perché la chiamiamo così?

“Plastico” viene dal greco e vuol dire “facilmente plasmabile“, il che è vero, se scaldiamo la plastica questa di modella molto facilmente. Ciò che però non sappiamo è che il tremine “plastica” viene usato, a livello popolare, in modo generico per descrivere una grande quantità di materiali, e principalmente quelli creati in maniera completamente artificiale, tramite reazioni che riducono di svariate volte il tempo o aumentano l’ordine di alcuni processi che troviamo già in natura.

Per entrare nell’era moderna della plastica e per capire come l’abbiamo iniziata a produrre da noi, arriviamo al 1839, quando il signor Eduard Simon stava giocando con il suo set da piccolo chimico. Ad un certo punto creò senza volerlo qualcosa che conosciamo bene: il polistirene (quello che chiamiamo anche polistirolo). Da quel momento ci siamo messi a sperimentare su materiali simili.

Il signor Parkes e il signor Hyatt, nell’arco di tempo tra il 1856 e il 1869, crearono la celluloide, prima chiamata parkesina, che venne poi successivamente utilizzata per produrre le pellicole per le cineprese (quindi prego Hollywood, non c’è di che), per i vetri di sicurezza stratificati e come nastro per il primo calcolatore programmabile della storia, lo Z1 (uno dei nonni dei nostri computer).

Inoltre, le vecchie palle da biliardo utilizzate fino a quel tempo ed altri accessori erano fatti principalmente in avorio, il che aveva messo in pericolo per circa due secoli le popolazioni di elefanti per le loro zanne, così Hyatt e la sua scoperta sul metodo di produzione (che all’epoca gli portò un premio pazzesco da 10.000 dollari) ebbero anche il pregio di supportare una causa animalista. Poi, purtroppo, l’uomo non ha sfruttato appieno questa scoperta per smettere di cacciare gli animali per l’avorio, ma questo è un discorso che potremmo affrontare in un’altra sede.

Questa scoperta fu strepitosa: capimmo che non eravamo più limitati dalle risorse naturali, ma potevamo usarle per “creare” ciò che più ci piaceva, se le avessimo studiato abbastanza.

Il signor Baumann, un chimico tedesco con una bellissima barba, creò accidentalmente il PVC (polivinilcloruro) nel 1872, che dal 1926 in poi con varie tecniche più avanzate verrà prodotto per creare condotti sotterranei, giocattoli per bambini, le care tendine della doccia che si incollano ovunque e pure in campo medico con i contenitori e i tubi per cateteri oppure flebo.

Baekeland creò nel 1907 la bachelite, utilizzata per creare prodotti come bottoni, tagliacarte, custodie per vecchie radio e qualsiasi cosa che vi faccia venire la nostalgia per la prima metà del ‘900.

I materiali che più associamo alla plastica però furono creati tra gli anni ’30 e gli anni ’50, ovvero polistirene (il già citato polistirolo) e il polietilene, con la sigla PET, quella che vedi sulle bottigliette di plastica per ricordarvi di riciclarle (ma a questo ci arriveremo dopo).

I signori Ziegler e Natta invece, negli anni ’50, capirono come velocizzare una reazione di polimerizzazione, quella che dai monomeri (i vagoni) di propilene crea i polimeri (i treni) di polipropilene (PP), la plastica comune che viene usata per tutto: dai contenitori per il cibo, la moquette, oggetti per la casa, vaschette per la lavanderia, parti d’auto, cavi delle batterie e tanto altro, ed è da lì che la nostra produzione di plastica ha preso il volo, venendo utilizzata a livello mondiale.

Ebbene, siamo diventati talmente bravi a farla che oggi riusciamo a produrre circa 20.000 bottigliette di plastica al secondo in tutto il mondo. Forse un po’ troppe.

Le plastiche di oggi e del futuro

Queste erano le plastiche più comuni, ma cosa abbiamo fatto di altro?
Abbiamo creato dei mix tra polimeri e altri tipi di materiali, dalle proprietà sorprendenti.

Polimeri conduttori: per l’high-tech

Dal 1980 in poi, in grado di condurre elettricità. Anche se di conducibilità ne hanno poca rispetto ai metalli più comuni, potranno (tra presente e futuro) dare vita a delle applicazioni incredibili, come degli schermi pieghevoli oppure degli accessori da indossare per monitorare i nostri parametri vitali. Se hai un FitBit forse stai già indossando un polimero conduttore!
Senza andare troppo in là, basti pensare agli schermi OLED che vedete nei negozi di elettronica oppure che avete nel palmo della vostra mano se possedete uno smartphone di ultima generazione.

Le plastiche biodegradabili: le più di moda

Ci sono oggi in commercio plastiche (come PHA, plastiche basate sul mais o la cellulosa) che hanno tenuta simile alle plastiche comuni, ma che sono totalmente biodegradabili se lasciate nell’ambiente, lasciate alle intemperie oppure alla mercè di macro e micro organismi. E alcune profumano pure!

Facciamo però attenzione: qualsiasi materiale è biodegradabile, anche l’acciaio, la bottiglietta di plastica o il vetro: basta che lasciate questi materiali all’aperto sotto gli agenti atmosferici, certi microbi, e qualche altro animaletto e in qualche migliaio o milione di anni non ci saranno più.

Siccome noi studiosi siamo come Rownta, non ci accontentiamo e vogliamo qualcosa di più veloce. Quindi per noi “biodegradabile” deve essere in un tempo che non ecceda una vita umana oppure che si biodegradi in qualche mese, settimana o addirittura giorno. Per fortuna recentemente sono anche stati scoperti degli enzimi capaci di “digerire” alcuni tipi di plastica, sempre accidentalmente. Proprio il caso di dire “Eureka!”, sperando che studi successivi ci diano delle soluzioni per sbarazzarci della plastica in eccesso in modo efficiente e utile per il nostro ecosistema.

Plastiche biocompatibili e non tossiche: alleate in medicina

In questa categoria rientra il polietere etere chetone (PEEK) viene usato per fare protesi che durano nel tempo, senza ossidarsi e senza avere cedimenti nell’arco di vita del paziente, con un allungamento anche maggiore rispetto a quello che può avere l’osso; insomma, siamo pronti per diventare cyborg molto flessibili (sì, volendo passare un attimo da realtà a fantascienza).

Le plastiche biocompatibili e non tossiche vengono anche utilizzate in progetti nell’industria aerospaziale per la loro sorprendente resistenza al calore e il loro peso ridotto.

Altre applicazioni a livello medico possono essere dei polimeri in forma di microsfere che rilasciano medicinali lentamente nel corpo e poi vengono espulsi, così da avere la certezza che non ci sia un rilascio in dosi elevate, potenzialmente letale per il paziente. Sono ancora un fase sperimentale, ma potrebbero essere di grande aiuto per i pazienti in condizioni particolari.

Anche se l’idea può fare paura, la plastica si può anche mangiare. Alcune pellicole polimeriche commestibili sono già presenti sullo strato superficiale di pillole medicinali, il che vuol dire che quando raggiungono lo stomaco si sciolgono e rilasciano il principio attivo, molto utile per sostituire i medicinali in polvere da disciogliere in acqua, dato che una buona parte dello stesso rimane incollato al bicchiere.

Bioplastiche, da non confondere con le plastiche biodegradabili

Le bioplastiche sono prodotte in maniera green per definizione, ovvero sono plastiche che devono essere prodotte parzialmente o completamente da processi che non impattano l’ambiente o il cui bilancio energetico sia totalmente costituito da fonti rinnovabili.
Ciò non vuol dire che queste plastiche siano biodegradabili. Per esempio, c’è anche il PET che viene prodotto in modo green da opportuni batteri, ma ovviamente se si lascia una bottiglia di PET nel bosco non sparisce in un giorno!

Nel futuro i materiali plastici serviranno ancora, ma dovranno avere proprietà ancora più sorprendenti.

Tutto questo per dire che la plastica non è un bene o un male, ma come tutte le cose bisogna saperla usare e soprattutto bisogna essere informati su come si produce e come si può smaltire, prima di fare qualsiasi decisione.
Nei prossimi articoli la conosceremo ancora meglio, per ora passo e chiudo!

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